Scritti sulla mia poesia
Antologia della critica 2006-2010
"E io ci metto anche i poeti".
Andrea Cortellessa, in: Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2010. [Nel sondaggio del Sole 24 sui migliori scrittori italiani under 40, A. Cortellessa ha segnalato sei poeti, tra cui anche Federico Italiano, facendo in particolare riferimento alla raccolta "mitopoietica" L'invasione dei granchi giganti] "... Per chi scrive, tuttavia, l’ultima prova del poeta novarese [L'invasione dei granchi giganti] è stata come la scoperta di qualcosa che si credeva dimenticato, qualcosa di intravisto forse all’estero, in un viaggio di piacere, e ora importato anche qui da noi, in Italia. Perché – diciamolo chiaro e tondo – una poesia dai toni così tanto epici, una poesia che spesso e volentieri immette direttamente nella leggenda o nel mito, da noi non la si vedeva dai tempi di Valentino Zeichen: questo il nome che viene subito da associare – forse con un eccesso di spontaneità – a quello del nostro Italiano, senza dimenticare ovviamente Derek Walcott, oltre ad Eliot, la cui ombra aleggia e prepondera in secondo piano. Le poesie raccolte nel nuovo volume sono poesie dal respiro ampio, ampissimo: così ampio da lacerare la cassa toracica, da farci respirare a pieni polmoni polveri antiche, refoli di voce provenienti da un passato irraggiungibile e ricco di suggestioni..."
Lorenzo Muccioli, in: La Voce di Romagna, 6 marzo 2010. Qui la versione integrale online. |
"Versi che tendono
a farsi riflessione e racconto..." Roberto Carnero, in: L'unità, 16 maggio 2010, p. 39. [Segnalazione de L'invasione dei granchi giganti] "Fra i più interessanti poeti nuovi, Federico Italiano impone il suo profilo austero e arditamente non lirico. Ma non senza cuore. Da non perdere di vista."
Classifica di Mauro Manfredini [quarto posto per L'invasione]. Studi cattolici, marzo 2010, p. 237. |
[…] Il 2010 appare come un anno davvero interessante per
quanto riguarda la conferma di alcune delle voci che hanno caratterizzato i
cosiddetti Settanta e quindi davvero il materiale di cui parlare non manca […]
Sicuramente Federico Italiano sta nel novero di quegli autori che hanno
condizionato la generazione dei Settanta, anche se dalle tematiche e dalle
modalità si discosta forse proprio per la possibilità di interagire con altre
letterature europee (l’attività di insegnamento tra Monaco di Baviera e Vienna
lo rende decisamente più affine alla scrittura e alla modalità anglosassoni di
qualsiasi altro nuovo autore italiano in Poesia, e questo è decisamente un
bene) cosa che se possibile lo rende ancora di più riconoscibile e ancora più
efficace […] in qualche modo rimane l’idea in queste pagine, come già nell’opera
d’esordio (Nella costanza del 2003) di un’epica che condiziona tutto il fare
Poesia e che si accosta al processo stesso della vita […] Una vita piena e una
Poesia piena, l’opera di Italiano incolla al testo, rende nostri i suoi
personaggi, crea doverosi scarti tra lirica e parlato. Vive insomma. E questa è
la Poesia.
Matteo Fantuzzi, in: La Voce di Romagna, 15 marzo 2010, p. 37. |
Federico Italiano (1976) scrive una poesia citatoria,
coltissima, con un linguaggio tecnico che evade da ogni vaghezza. Allude a
Pound e Eliot, a Brodskij, forse in filigrana persino a Gozzano. Sono vertigini
postmoderne quelle dei suoi versi, spaesanti ed enciclopediche, che si fanno
ammirare per abilità e acume.
Daniele Piccini, in: Famiglia cristiana, 28 febbraio 2010, p. 99. |
"... È un libro per certi versi epocale perché Federico [Italiano] è il Thomas Pynchon della poesia, è pop e avant-pop, è postmoderno e epico, è geologico e teologico, mescola Darwin a Tommaso d'Aquino, fa dialogare Schiller e il kebap... Italiano è il primo poeta italiano che scrive una poesia oceanica, occidentale, enciclopedica." Davide Brullo, gennaio 2010 [recensione a L'invasione dei granchi giganti] Leggi qui sotto la recensione completa
|
“[…] e dico semplicemente / dico la voglia / nella scelta della virgola, / nel fissare l’unico aggettivo concessomi, / poiché non c’è spazio / quando ci separa un mondo e non c’è tempo”… Questi bei versi, dall’inedito “Lettera da Mahon” [poi confluito in L'invasione], dicono anche di un forte senso del linguaggio, di un sentimento contrastato (presente anche in “La nuova lingua”) che credo stia alla base della grande varietà e padronanza di ritmi e registri che caratterizza la poesia di Federico Italiano, facendosi specchio di una ricerca incessante sul linguaggio, per poterne sfruttare tutte le potenzialità, per piegarlo alle esigenze del dettato, senza tuttavia snaturarlo, per far vibrare la parola, lasciando che siano le cose e le persone a dirsi e raccontarsi. Come in “Vita nascosta di Basilius il panettiere”, che prende vita – fisica e psichica – nei versi dalle proprie stesse parole dure: “Odio questo quintale e il diabete, e il mio sorriso / inservibile, l’esasperazione dell’alba e le mie dita / informi. […]”. O nella descrizione della stanza “porzione ospedaliera del sonno, illuminata”, in cui “Si dispongono i libri, ben sapendo che è un fronte / steso contro l’ospite”. E “Le candele hanno una funzione doganale, / segnano il passo del tempo, scovano il maltolto” La poesia di Italiano non spiega, non nomina il sentimento, non mira alla sensazione, ma lascia che siano le cose a farsi parola, a dirsi o lasciarsi dire dal loro stesso apparire. "Perché ci devolvesti al sotterraneo, / alla zolla, / non eravamo già abbastanza confusi?” Chiede Italiano al “Signore dell’Humus” in “Variazione su Ash-Wednesday”, come a dire che la superficie è già di per sé inafferrabile, ineffabile, è già di per sé fonte di insidie, territorio di segreti che si sottraggono proprio nel momento in cui pensavamo di averli svelati, e “piaceva sapersi compiaciuti di sapere dove sta il Bene”. Mentre non possiamo circoscrivere nulla, soltanto tentare, con lo strumento inesatto del linguaggio [...]" Chiara De Luca, Pensare nella lingua e non per la lingua. In: Nella borsa del viandante. Poesia che (r)esiste. A cura di Chiara De Luca, Rimini: Fara Editore, 2009, pp. 157-158. |
Giuliano Ladolfi, in: Poezia italiană de azi. A cura di Alex Cistelecan. In: Vatra. Revistă lunară de cultură, 7-8/2009, pp. 108–109. [cappello introduttivo] |
Giancarlo Pontiggia, in: Il miele del silenzio. Antologia della
giovane poesia italiana. A cura di
Giancarlo Pontiggia, Novara: Interlinea, 2009, pp. 121-22 [cappello introduttivo]
Leggi qui
|
Davide Brullo, "Federico Italiano, uno Stanley Kubrik che fa versi". In: La
Stella polare. Poeti italiani dei tempi “ultimi”, A cura di Davide Brullo, Roma: Città Nuova, 2008, pp.
123–129 [cappello introduttivo].
|
Durante una serata piacevolmente informale e assai gradevole, dopo aver declamato le lodi della sua poesia, quasi per un atto di autodifesa, facemmo osservare a Federico Italiano come una lirica di Paul Celan possa sovrastare un poemetto di Ted Hughes o di Seamus Heaney. Si scherzava, per l’appunto, con garbo – Italiano è un sapiente lettore sia di Celan che di Heaney – su due grandezze incomparabili. Banalizzando: la schietta ambiguità del tedesco contrapposta alla magmatica narratività dell’irlandese. Eppure, ed era questo il senso della nostra provocazione, ci pare stia qui il dilemma, l’incrocio, il solido pitagorico della poesia di Italiano. Che è poeta prodigioso e felicissimo, ma che, ci sia concesso il buffetto, manca di icasticità. Ovvero, si riemerge dal sublime pasto senza sapere perché il cuoco ci abbia invitato a cena. Tant’è, fortunatamente la letteratura non è affare da oscuri padri della religione, e a noi, se merita, piace il mangiar bene in quanto tale. E poi, se la vogliamo mettere giù dura, Ungaretti ha già fatto troppi danni. Non lui, sia chiaro, ma gli ungarettini a cui bastava un bel sentimento per tirar fuori qualche sbadato verso. Ma torniamo al principio. Italiano è poeta dell’“esilio” (essendo, peraltro, egli stesso in esilio quasi permanente a Monaco di Baviera). Intendendo, è ovvio, tale parola nella qualità adamantina e intera di “stato dell’anima”. E qui tornano a getto Celan e Heaney, moschettieri di tale condizione esistenziale, assieme ad altri che costituiscono la “tradizione” – quasi una sorta di “legge orale” – che Italiano, come ogni poeta sano di mente, si è testé plasmato a misura della propria giacca. La sua nuova prova, I Mirmidoni (con, a mo’ di sottopancia, la sigla «Poemetto in tre tempi»; con prefazione di Giancarlo Majorino e nove disegni di Andrea Boyer, Il Faggio, Milano 2006, pp.32, e10,50; www.ilfaggio.it), è località lirica piena di “esiliati”. Dall’«argentino Rosenstolz, custode d’origine ebraica,/ per un quarto italiano» ad Ancaeus Slocum, da Automedonte a «Maerten, figlio di Roman dai bei capelli». Non sarà sfuggito l’andazzo omerico, che c’è, benché impiastricciato, scosso e antideclamatorio, al modo con cui Ulisse naviga viso a poppa nell’Ulysses di Joyce. C’è, insomma, molto mondo in questo poemetto dalla navigazione tortuosa e complessa, il Baltico e l’Atlantico, il Kazakistan e la Terra del Fuoco, «i Ray Ban/ di Cousteau e i Rolex cinesi», ma anche Otello e Tacito, di cui si riporta una notizia gustosissima. È questa zuppetta di spezie la poesia nuova? Chissà, la poesia nuova è fatta da genietti del verso, ed è questo che conta. E noi non abbiamo notizia di altri che riescano a filare così bene l’arazzo della propria poesia e per così tante, vaste pagine come Federico Italiano. Che, ci sembra, vada scrivendo un unico, difforme romanzo. Si rilegga il precedente libello, Nella costanza (2003), e si comprenderà l’oracolo. In cui pare, altro spaesamento, mescolare Nabokov a Naipaul, ennesimi scrittori dell’esilio, con, rinverdiamo l’unghia, quel difetto lì: e se sotto la glassa facesse capo il nulla? Embè, si dirà, stornando il malocchio, chissà cosa c’era mai dietro la siepe del Leopardi! Federico Scardanelli, "L’assalto dei Mirmidoni. Pensiero con buffetto su un poemetto di gran stazza che fa accostare Tacito a Nabokov", in Il Domenicale, 2 dicembre 2006 [recensione a I Mirmidoni] |
È difficile trovare in Italia un poeta più consapevole e più shakespeariano di Federico Italiano (1976). Il quale, a dispetto del cognome, è scrittore apolide, che si nutre di molteplici tradizioni letterarie. Questione di biografia, forse. Il Nostro abita a Monaco di Baviera da circa un lustro e si occupa “professionalmente” di traduzione. Il suo sforzo, condensato in un numero monografico della rivista Atelier dedicato alla Giovane poesia europea (n. 30, giugno 2003), si muove agilmente tra almeno quattro lingue: egli ha dato versioni di poeti inglesi (Elizabeth Bishop), tedeschi (Durs Grünbein, Michael Krüger e Lutz Seiler), spagnoli (Vicente Aleixandre) e francesi (Philippe Soupault). Si diceva di una lirica shakespeariana. Provare per credere: Italiano, cosa rarissima nel Belpaese, è poeta che tiene la misura lunga, e anche lunghissima, con facilità spaesante. Ed è, soprattutto, poeta che crea la vita, che crea uomini a tutto tondo, pieni e sfaccettati, e storie romanzesche. Accade così che nel saggio d’esordio Nella costanza (Edizioni Atelier, 2003) e nel poemetto I Mirmidoni (Il Faggio, 2006), porzione di una scintillante raccolta in itinere, oltre ai magisteri di Seamus Heaney, di Josif Brodskij e di W.H. Auden, si senta il riflusso di un Vladimir Nabokov e di un Henry James. Il Nostro è anche capace articolista di «Alias», supplemento culturale del «Manifesto», e di «Nuovi Argomenti». Davide Brullo, Il Domenicale 21 aprile 2007 |