Scritti sulla mia poesia
Antologia della critica 2011-2024
"Saturazione sensoriale e memoria attiva: all'interno del compasso di Federico Italiano." Saggio di Davide Castiglione per il numero 129 della rivista Il Segnale
La poesia di Federico Italiano offre un’esperienza di lettura al tempo stesso ancorata e mobile, di familiarità e di scoperta avventurosa: può far pensare a un grande giro di compasso dove la punta metallica – le costanti della poetica dell’autore – è ben piantata e mai persa di vista, e la punta di grafite – la scrittura stessa, il suo manifestarsi in versi, poesie, libri – in moto perpetuo ma disponibile a tornare su solchi già tracciati per approfondirli o saggiarne la tenuta. L’analogia regge a patto di mettere in risalto, del cerchio, non certo una coazione a ripetere o perfino un’inevitabilità fatalista, ma attributi di ampiezza e compiutezza, di inclusività ed eleganza. L’intento del presente saggio è dunque quello di verificare tale dinamica, intuita sulla scala globale dell’opera, sulla scala locale dei testi. Si darà particolare rilievo alla più recente pubblicazione dell’autore, La grande nevicata (Donzelli, 2023), per illuminare retroattivamente alcuni aspetti di due lavori precedenti: Habitat (Elliot 2020) e L’impronta (Aragno, 2014). L’ipotesi è che questo secondo decennio della produzione dell’autore possa essere compendiato dal titolo del libro d’esordio, Nella costanza (Atelier, 2003). Questo sintagma suggerisce la presenza di un perno, o il ritorno del pendolo alla posizione di riposo. Lo aveva d’altronde già sostenuto Laura Pugno nella quarta di copertina de L’impronta, notando “tracce di coerenza […] sin dalla raccolta d’esordio”[i]. L’attraversamento all’indietro che qui propongo consentirà inoltre di individuare echi della tradizione letteraria non solo italiana e di fare un bilancio, per quanto parziale (restano fuori i due primi libri: Nella costanza e L’invasione dei granchi giganti) di un’opera che si è imposta tanto per qualità letteraria quanto per la capacità di esprimere una poetica riconoscibile sulla lunga durata. […] continua sulla rivista "Quel visionario di Federico Italiano"
Maurizio Cucchi recensisce La grande nevicata per Robinson (Supplemento di Repubblica, 3 dicembre 2023, p. 19) Figura tra le più rilevanti della sua generazione (è nato nel 1976), Federico Italiano ha già al suo attivo precedenti raccolte, che ne avevano messo in evidenza la personalità, fino ad Habitat, uscito tre anni fa. Novarese, vive a Vienna e insegna letterature comparate a Monaco di Baviera. Si ripresenta con un'opera che spicca per la varietà dei temi e per la capacità di attivare a diverse e originali soluzioni espressive, spesso anche modulando importanti forme della tradizione. Gioca in prevalenza su strofe regolari (terzina e quartina, soprattutto) e trova anche a volte soluzioni cautamente sperimentali. In queste pagine ci conduce agilmente in paesaggi diversi, aziona la sua sensibilità da circostanze storiche a prelievi dalla memoria personale (appare per esempio la figura del padre), nel corpo di una narrazione lirica molto aperta e cangiante. Ecco per esempio un testo sulla Morte di Nikolai Gogol', un altro sullo Yeti; ma riesce anche a comporre una Elegia per un passamontagna, per arrivare più avanti alla Passacaglia in verde minore. Insomma, un poeta maturo, capace di articolare la sua scrittura in un utile incrocio tra esatto controllo dello stile e estro inventivo. |
Riccardo Donati recensisce La grande nevicata per Semicerchio
La grande nevicata è il quinto libro di versi firmato da Federico Italiano, a non contare la rappresentativa auto-antologia feltrinelliana Un esilio perfetto (2015). Segue Nella costanza (2003), L'invasione dei granchi giganti, poesie 2004-2009 (2010), L'impronta (2014) e Habitat (2020); il suo è dunque un percorso ormai ventennale, largamente riconosciuto dalla critica come uno dei più significativi nel panorama della lirica italiana contemporanea. La silloge pubblicata da Donzelli dialoga fittamente con la precedente edita da Elliot, e si potrebbe forse parlare di una sorta di dilogia che attende una terza anta per comporsi in trilogia. Di Habitat La grande nevicata riprende l'architettura complessiva, essendo egualmente divisa in cinque sezioni (Tecniche di caccia, La linea della neve, Complementi di luogo, Il meteorologo, Terminal: una scansione che pare rispondere più al coagularsi di alcuni motivi esemplari che a una rigida partizione cronologica o per argomenti), oltre alla scelta di esplorare un tempo –gli anni Ottanta del Novecento, come conferma il titolo che scorcia quello della lirica eponima: La grande nevicata del 1985 –e una geografia emotiva infantile legata all'Ovest Ticino. Tuttavia, i motivi di novità non mancano. Intanto mi pare che Italiano domini con finezza sempre crescente una scrittura di matrice cinematografica fatta di inquadrature larghe, aperte e allo stesso tempo complesse, con lo sguardo chiamato a esplorare i luoghi ma anche a bloccarli in un tempo congelato, restituito attraverso dettagli-ellisse dove il dato di realtà si inarca, emerge prepotente dalle profondità mnestiche, sicché il potenziale della temporalità è esplorato a fondo secondo linee che problematizzano percezioni e memorie invece di distenderle e allinearle acquiescenti. Sempre più poi si fa urgente l’esigenza di un corpo a corpo serrato con l’impronta del vissuto, sia individuale sia ecosistemico, nella consapevolezza primaria che ogni creatura costruisce il proprio spazio di presenza nel segmento di mondo che le è dato; un frame ambientale che spesso, per naturalissima estraneità, o impossibile dimestichezza, si rivela ostile nei suoi confronti. Accade così che la vita, ogni vita, si manifesti come reazione alle condizioni date e come continua elaborazione da parte dell’individuo di strategie per orientarsi, insediarsi, prevalere. Non è un caso, credo, che l’autore ricorra volentieri alla figura dell’uccello predatore, simbolo della fredda, eppure a suo modo innocente, caparbietà di cui è capace ciò che esiste. Mi è già capitato di parlare, per Italiano, di un meraviglioso raziocinante che lavora sul versante agonico e non consolatorio del ricordo, scommettendo sulla possibilità di re-incantamento della parola poetica, la quale anche nell’esilio dallo stupor che segna l’età adulta può trovare un’eco fantasmagorica, un’aura di presagio, risonanze metafisiche. La sua predilezione per le geometrie del paesaggio modulate in gradazioni di spazio, sempre in bilico tra esattezza cartografica e astrazioni quasi fantasy, fa sì che i luoghi natali si accampino sulla pagina con le forme di una quotidianità aliena e fiabesca che odora di nord, di steppe, di distese artiche.L’ordinario si contamina di continuo con accese fantasie di ere remote e scenari avventurosi: un sottoscala diventa una parete rocciosa, un piumone si tramuta in ponte o grotta. Penso al Nord favoloso cantato in Yeti, che è in realtà riscrittura del sé-bambino nella casa d'infanzia,o alla «guerra fredda / nei cortili» di Elegia per un passamontagna. Un movimento tipico della scrittura di Italiano prevede che una stanza, un oggetto riemerso come rigurgito fossile del secolo scorso (la pietra pomice, il passamontagna), un libro (in Hotel Libreville, azzardo, Le coup de lune di Simenon), un fatto lontano siano convocati e poi puntualmente elusi, specie in clausola, non perché chi scrive intenda dimostrarsi più forte dello struggimento verso ciò che non torna («fine dell'era glaciale, inizio del fango»), ma per confrontarsi col vissuto senza cedere ai suoi ricatti e alle sue seduzioni consolatorie. A petto di questi scampoli di “leggenda privata”, per citare Mari, le esperienze di luoghi effettivamente visitati o dove si è abitato, da Gerusalemme a Vienna, presenti soprattutto nelle sezioni finali, risultano più irreali, ma soprattutto meno vividi, come scialbati e raffreddati dal loro ridotto potenziale immaginifico. Spesso – devo questa notazione a Giulia Martini e all'ascolto del suo podcast In rime sparse – l'accensione mnestica detona dai colori, e il libro è attraversato da un tempo cromatico che finisce per collassare in un «bianco inesauribile», o, direbbe De Lillo, silenziarsi nel rumore bianco di una temporalità azzerata. Ben lo si vede nel fantapoemetto Il meteorologo, diviso in tre movimenti e interessante perché, pur essendo in prima persona, è l'unico testo finzionale (ne è protagonista uno scienziato sovietico isolato in una base artica). Né è un caso che l’immagine dominante della neve finisca per rimare, nel testo conclusivo, con quella della cenere: due diverse figure del tempo che copre, ammanta, sommerge – «Dentro a quel bianco – in nulla riconducibile ad alcunché di bianco, / che tutto tiene eccetto / sé stesso, che esiste solo alla fine -» (Blues della cenere). Resta da notare come La grande nevicata confermi la costante tenuta tonale e formale del lavoro di Italiano. I suoi sono versi nel loro controllo, «un poco alla maniera del clavicembalo, senza l’effusione del pianoforte», a dirla con Raimondi, eppure non c'è freddezza, distacco. Sempre apprezzabile il lavoro sullo stile: una sintassi che si snoda con intelligente naturalezza, ora tornita a restituire esiti di composta classicità (quasi montaliani: «Molto non ci rimane»), ora distesa in cadenze narrative («Lo trovarono a faccia in giù, inclinato», «Il verde caldo della giungla»), mentre la lingua, estremamente sorvegliata, è improntata a una medietas che non rifugge da preziosismi (labbra «perfette come l'ansa del Neris che circonfluisce / la città in un'arringa inoppugnabile») e talora ricorre all'esattezza del lessico zoologico-botanico, di cui però porta a giorno le intrinseche alonature di fascino e mistero – penso a lemmi quali «spighe di tifa», le prugne «mirabelle», i «denti di leone», la «vallisneria», «foreste eoceniche», «folaga», «monocotiledoni». Tra i poeti italiani maggiormente attenti alla dimensione acustica, Italiano lavora sulla tensione tra senso e suono perseguendo la melodia di una misura fissa con sottili variazioni. Predilige la scansione strofica per quartine o terzine, sempre memore della modularità metrica tradizionale (sonetto, canzone) variamente ripresa e dissimulata, ma ama sperimentare forme altre come l’haiku (Il fiume), le slant rhymes anglosassoni (Dickinson, Larkin tra gli altri), la strofe saffica (La pietra pomice). Sovente il poeta ricorre alla qualità iterativa, ipnagogica del ritmo, che in Habitat si manifestava sotto forma di preghiera ritualizzata, litania anaforica di ispirazione scritturale-sapienziale, mentre nella Grande nevicata rammenta piuttosto il refrain musicale, dalla passacaglia al blues. Proprio per questa attenzione al piano fonico l’autore non rifugge la rima e anzi se ne serve al pari delle assonanze e delle numerose inarcature; del resto, l’andamento meditativo-narrativo delle sue liriche richiama certi esiti del folk colto, e facilmente potrebbe acclimatarsi in altre lingue, germaniche soprattutto. Anche in questo Italiano si dimostra voce di respiro europeo. Qui la pagina online di Semicerchio |
Davide Brullo su La grande nevicata, Il Giornale, 30 agosto 2023
Federico Italiano, anni 47, ricercatore presso l'Accademia Austriaca delle Scienze di Vienna, traduttore - per Einaudi e Bompiani ha voltato nella nostra lingua l'opera di Jan Wagner -, è tra i più importanti poeti europei di oggi. L'asserzione non cede spiragli all'euforia: i libri di Italiano gareggiano - se ha senso l'attitudine atletica in ambito lirico - con quelli di Simon Armitage, attuale «Poet Laureate» del Regno Unito, o con quelli di Durs Grünbein. Autori d'altra generazione, d'altro pedigree, pluripremiati. Leggere per credere. Nello stretto reame peninsulare, non c'è partita. Per capirci. Questo è Franco Arminio: «Sacra la pianta dritta e coraggiosa/ in mezzo ai sassi dei binari»; questo è un brandello da Erevan, di Italiano: «Sgusciare sotto il buio come un essere/ d'ombra e saliva,/ poi guadare la roggia/ più a monte.../ per svegliarti con la luce che filtra/ dalle costole erose di un leviatano» (cito dall'ultimo libro, La grande nevicata, Donzelli, pagg. 84, euro 15). Questa è Alda Merini: «Adesso sono una pioggia spenta/ dopo che l'orma del tuo cammino/ si è fermata ai miei occhi»; questo è Italiano, l'attacco di Vilnius: «Ci sono nuvole, drappeggi e cupole barocche/ e poi ci sono le tue labbra/ perfette come l'ansa del Neris che circonfluisce/ la città in un'arringa inoppugnabile». Questo è Milo De Angelis: «Qui tutto diventa veloce, troppo veloce,/ la strada si allontana, ogni casa sembra una freccia/ che moltiplica porte e scale mobili e allora hai paura»; questo è Italiano, l'attacco di Aurora autunnale: «Livella d'alluminio, l'orizzonte,/ con una biglia bianca al centro/ che lentamente scende.// Dodici corvi sognano/ neri sogni di corvo/ tra i rami spogli di un platano». La grande poesia è facilmente riconoscibile, s'impone per prepotenza di immagini, per l'arte di spiazzare le attese del lettore, di variare i registri e il repertorio di rime, lo stivaggio del verso; è memorabile quando alterna levità narrativa a densità gnomica. Il gioco pedestre fatto poco sopra, tramite campionatura violenta (poeti canonizzati dal talento o dalla capacità di farsi merce) serve a dimostrare un fatto (Federico Italiano è poeta più bravo di altri, più onorati di lui), a instillare un dubbio (quando la poesia si capisce subito, pio pensiero pittato sulla bianca parete del cuore, è bene andare in sospetto: forse non è poesia) e a ricamare un argine d'ira. In letteratura contano soltanto i testi: perché, allora, gli editori transatlantico continuano a propinarci libri iniqui di autori che vanno in tivù dimostrando la propria sagace vacuità? Perché continuare, che viltà, a trattare i lettori come degli esigui cretini, degli esimi idioti? Federico Italiano ha esordito vent'anni fa, nel 2003, per le Edizioni Atelier, con un libro, Nella costanza, che della giovinezza conserva il fremito d'oro. Alcune poesie - Potatori di siepi a Hasenbergl, Nascita di una stanza, I custodi della Glittoteca - recano ancora stimmate reali, profetizzano in seme gli altri libri di Italiano, pubblicati con strategica pazienza: L'invasione dei granchi giganti (Marietti, 2010; testo miliare per azzardo e tensione epica), L'impronta (Aragno, 2014), Habitat (Elliot, 2020). Anche in quest'ultimo libro, l'ordinario - Walkie-talkie - si mescola all'esotico - La pesca coi cormorani sul fiume Li -, la memoria privata - La grande nevicata del 1985 - a quella leggendaria - Yeti -, il selvaggio - Un corvo, Il gheppio - all'etica del viaggio e dello spaesamento - Vilnius, Mitteleuropa, Mediterraneo, Equinozio d'autunno a Tangeri, Gerusalemme. Con predatoria sapienza, Federico Italiano passa da liriche romanzesche (Il meteorologo che scrive messaggi dal «Mar di Barents sud-orientale») ad altre, improntate al gioco, al voluttuoso, vertiginoso barocchismo (Passacaglia in verde minore, Blues della cenere). Soltanto un grande poeta - ripeto - può mettere in versi, con nonchalance, La morte di Nikolai Gogol' («Lo trovarono a faccia in giù, inclinato/ sul fianco, come/ se lo avessero sepolto// vivo...»). Chi ha dimestichezza con la poesia, riconoscerà nell'identikit di Italiano una genealogia che passa per Ted Hughes, Seamus Heaney, Iosif Brodskij. La verità - contraffatta dagli editori contrabbandieri - è che i poeti italiani degli ultimi due decenni sono assai più dotati dei colleghi romanzieri. La grande nevicata di Italiano, L'amore e tutto il resto di Andrea Temporelli, I destini minori di Isacco Turini, i libri di Francesca Serragnoli (il prossimo mese uscirà un nuovo lavoro per Interno Poesia) abbagliano per magistero, per lignaggio del linguaggio, rispetto alle pappe insipide degli iper promossi Paolo Cognetti, Marco Missiroli, Antonio Scurati, Michela Murgia, per dire [...] Pezzo integrale qui |
Locuste e iperoggetti in Federico Italiano: decentrare l'uomo prima della catastrofe.
Bel saggio ecocritico di Davide Gallo incentrato sulla mia poesia "La nuova età gregaria o l'invasione delle locuste" (in L’invasione dei granchi giganti. 2010) apparso il 3 agosto 2023 sulla nuova rivista Vallecchipoesia.it Sia in ambito accademico che in quello poetico, Federico Italiano ha manifestato, dall’inizio della sua carriera con Nella Costanza (Atelier, 2003) al suo ultimo libro La grande nevicata (Donzelli, 2023), un’attenzione peculiare per le nuove teorie critiche più convincenti e le relative possibilità di sguardo. Se in lavori di ricerca come Tra miele e pietra: Aspetti di geopoetica tra Montale e Celan (Mimesis, 2009) e Translation and Geography (Routledge, 2016) dimostra un’analisi attenta alla spazialità, intesa come luogo di relazioni da indagare nei suoi molteplici strati, dalla stratosfera abitata dai corpi biologici e non, alla dimensione sociale e culturale, in chiave poetica lo stesso strumento della Geocritica si fonde allo sguardo personale ed elaborato di un poeta che non nega la possibilità dell’esperienza personale come strumento conoscitivo capace di attivare una rete compenetrata di oggetti minuscoli ed energie devastanti. In quest’articolo non mi occuperò di un generalista elenco di opere e lavori, bensì, come già si evince dal titolo, di una singola poesia, analizzata a partire dal suo valore etico ed ecologico, sulla scorta di alcuni strumenti critici sviluppati negli ultimi 30 anni di ricerca e critica letteraria e filosofica. Nell’ottica del rapporto tra Io, habitat e potenzialità esperienziali, si parlerà della poesia La nuova età gregaria o l'invasione delle locuste da L’invasione dei granchi giganti (Marietti, 2010) e di come l’esperienza di un soggetto in vacanza possa saldarsi metaforicamente ed ecologicamente alla messinscena di uno degli effetti catastrofici della crisi climatica... Qui trovate la versione integrale |
Edoardo Albinati scrive su La grande nevicata per Pordenoneleggepoesia.it
“Imperturbabile come un samurai”, maneggiando la lingua come “un’ascia/ brandita da una skjaldmaer/ in tuta da jogging”, Federico Italiano continua ad allineare le sue liriche con sorprendente consapevolezza. La sua resta una poesia in cui parte del godimento si sprigiona da un obbligo – quello a indagare, a approfondire, insomma a studiare: dopo la “skjaldmaer” (i.e., guerriera vichinga), l’etimo insospettabile della parola “calumet”, che si dava per scontato derivasse da qualche tribù di pellerossa – oops, scusate, nativi americani; oppure la configurazione del misterioso psoas, il “muscolo della fuga”, che scopriamo di avere, e quanto possa dolorare, solo quando un fisioterapista ce lo fruga. Il movimento intellettuale di Italiano ha un carattere per così dire topografico: sfiorando con un dito un punto qualsiasi della mappa, esso tende a scivolare altrove, incuriosito, alla scoperta di arcipelaghi sconosciuti e golfi e città e vulcani, seguendo il disegno frastagliato dei confini (l’ineffabile “cartina muta” di Milo De Angelis) per poi scavalcarli. Lo stesso vale per le tavole anatomiche, gli erbari, i vocabolari, i libri illustrati e ogni tipo di variopinto campionario: nella Wunderkammer di Italiano le materie di studio sono disposte in un continuum, e la poesia non è che il tramite per attraversarle tutte, contrabbandando oltre frontiera merci preziose, marcando accuratamente le differenze grazie a segni precisi ma al tempo stesso con i medesimi segni connettendole – che poi sarebbe la caratteristica paradossale del nomos: disgiungere ponendo in contatto. Nella sua nuova raccolta La grande nevicata le scorribande erudite sono un poco meno frequenti, vi è un più deciso scavo nel ricordo, nell’intimità ricostruita per scorci e dettagli, come in certe polaroid di Luigi Ghirri (“… ma noi,/ amore, rimaniamo al buio,/ scuri e nudi,/ sotto i piumoni”) ma il culto dell’esattezza, dello smalto formale è sempre quello. Spesso queste poesie si aprono con una specie di fiamminga ekphrasis ambientale (vedi La soglia del dolore, con la minuziosa descrizione di uno studio di osteopata, oppure Equinozio d’autunno a Tangeri, o ancora Un corvo, e nella stessa elegia che dà il titolo alla raccolta) realizzata giustapponendo particolari selezionati con scrupolo, per poi aprirsi in una concisa quanto succosa parabola narrativa, che non disdegna di disseminare qua e là una sentenza – come ad esempio “la gravità era strumento del piacere”, ricavata dalla favolosa esperienza dei bob improvvisati per scivolare sulla neve. Per questi fattori e altri ancora, Massimo Gezzi ha scritto che quella di Federico Italiano è “una voce inconfondibile” – il che è senz’altro vero, ma io piuttosto che di “voce” parlerei di “pronuncia”, o addirittura “dizione”, sì, quella che si insegnava nelle scuole di teatro, un modo cioè di chiarire il linguaggio restituendolo alle nude unità di misura di cui è composto – suoni, verbi, fraseggio. Un po’ come quando Orson Welles suggeriva di recitare Shakespeare con accento scozzese, arrotando la erre altrimenti liquida in inglese, in modo che ogni parola avesse il massimo risalto. Esempi di quanto sto tentando di spiegare li troviamo un po’ ovunque in questo libro, p.e. in Camera ardente, dove il cordoglio viene lacerato sarcasticamente (“… e in fondo alla strada il silenzio devoto/ del pomeriggio cedeva al rancore/ di un motorino truccato” – il corsivo è mio) o nella bellissima L’ultimo autobus, che val la pena leggere varie volte per la sua perfetta concatenazione di elementi, e che termina col sollievo del viaggiatore notturno alla partenza, quando finalmente la corriera si muove dal suo stallo: “Una lenta retromarcia, una curva/ nel continuum giallo e nero/ del terminal. Il bus avanza: l’aorta/ si quieta. Sei al sicuro. Per ora.” Una dizione che culmina nella forse più impressionante poesia della raccolta, la Barbabietola, puro vertice sinestetico, dove la esibita bravoure del poeta viene comunque stemperata e fatta perdonare dalla chiave di commovente iniziazione alla vita. Nelle sei ottave ci sta dentro quasi tutto (botanica, geometria, biologia marina, una teoria dei colori, almeno quattro sensi su cinque – quindi le suore, le tavolate di formica, i conati di vomito, l’istinto morale, “i pennarelli della mia innocenza,” e la condanna capitale alle verdure che ha segnato l’infanzia di chiunque – perché “fanno tanto bene” dunque “vanno mangiate”…) e infatti io, per scherzo, ma mica tanto, ho definito questa poesia la Digitale purpurea di Federico Italiano, ma forse avrei fatto meglio a dire il suo Gelsomino notturno. Qualcosa davvero di indelebile, insomma, l’esperienza di inghiottire intera una fetta di barbabietola, “innervosito ammasso purpureo,/ scintillante, vibrante/ come oloturia in un acquario,/ grondante sangue o qualcosa di rosso”… E a proposito di influenze (argomento scivoloso che andrebbe forse evitato per non fungere da comodo appiglio al recensore che così se la cava sempre, buttandola in corner…), ebbene, leggendo Pietra pomice, realizzata in un crescendo virtuosistico di connotazioni, si viene tentati di vedervi certi procedimenti immaginativi di Valerio Magrelli, e più indietro le variazioni Goldberg di Eugenio Montale sull’anguilla, e addirittura il riferimento quasi preistorico alla Conchiglia fossile dell’abate Zanella – che oggi nessuno si fila più ma che ancora quelli della mia generazione mandavano a memoria, alle medie. E poi, i dodici corvi di Aratura autunnale hanno qualcosa a che fare con i Tredici modi di guardare un merlo di Wallace Stevens – pianeta il cui influsso sull’orbita non so quanto conti nel sistema solare di Italiano? La famosa nevicata del 1985 chiunque abbia più di quarant’anni se la ricorda bene, chi allora era bambino (“con guance rosse, spilli/ di freddo nelle mani, la sciarpetta/ di lana grezza che incendiava il collo…”) persino meglio di chi era già adulto. Debbo dire che questa versione domestica, erotica e “locale” di Federico Italiano quasi quasi la preferisco a quella più dotta e cosmopolita. La sua autentica, rivoluzionaria novità rispetto a quanto si legge mediamente oggi, in versi ma più spesso ancora nella prosa narrativa, è la quasi totale assenza di sofferenza, o piuttosto (tanto per esser chiari) del sentimento esibito di essa, che invece formano una specie di dorsale tematica della produzione letteraria recente nel nostro paese. Questo potrebbe doversi a varie ragioni: una naturale propensione verso le forme esuberanti e riuscite della bellezza, di qualsiasi provenienza siano, dalle discipline scientifiche come da quelle artistiche; una razionale scelta tematica, simile per certi versi a quella del Manzoni quando in pieno romanticismo rinuncia a scrivere d’amore, perché, in sostanza, “già ne scrivono tutti”; oppure perché il dolore è già nelle cose, aderente e inerente ad esse, nella loro statuaria finitezza fisica (qualsiasi contorno formale, in definitiva, non è che un taglio spietato) e per la loro caducità, piombata, lucreziana, sicché non vi è alcun bisogno da parte del poeta di sovrasegnalarlo premendo sul pedale sentimentale – più brutalmente detto, facendo un po’ la lagna. Per sprigionare lo struggimento, intendo dire, sono sufficienti dei colpetti, o pressioni decise e concentrate come quelle dello shiatsu. Basta, ad esempio, rammentare un gioco di spie fatto coi walkie-talkie – quegli oggettini che furono gelosamente venerati come miracoli della tecnologia, simboli di una modernità appena nata e subito al tramonto, pretendendo di essere “spie sovietiche in mansarda,/ in cucina, nel sottoscala, quando/ si diceva: sbrìgati, ci hanno/ beccato, passo, aspettami/ che arrivo, passo e chiudo.” |
Massimo Gezzi recensisce La grande nevicata per il manifesto (1 luglio 2023)
Federico Italiano è probabilmente il poeta meno italiano e più europeo tra quelli nati tra gli anni ’70 e ’80. Poliglotta, ricercatore presso l’Accademia austriaca delle scienze di Vienna, notevole traduttore (soprattutto del poeta tedesco Jan Wagner, ma anche di Raoul Schrott e Lutz Seiler), curatore insieme allo stesso Wagner di una preziosa antologia della nuova poesia europea che ospita testi scritti in 47 lingue (Grand Tour, Hanser 2019), Italiano pubblica oggi per Donzelli il suo quinto libro di versi, La grande nevicata (pp. 84, euro 15). SIN DAGLI ESORDI i testi di questo poeta si sono distinti per la loro straordinaria capacità prensile e inclusiva: fondali lontani e talvolta peregrini, culture occidentali e orientali, uccelli e insetti precisamente nominati, realtà di non immediata decifrazione (in questo libro, per esempio: lemniscate, occhiocotto, monocotiledoni, mejadra…). Non fa eccezione quest’ultima opera, forse più delle precedenti influenzata dall’esperienza di traduzione da Wagner (cui è dedicata una poesia), in cui Italiano costringe il lettore a schiodarsi dalla geografia conosciuta per percorrere lo spazio e il tempo: dal Mediterraneo a Gerusalemme; da Vilnius a Khodovarikha, sul Mar di Barents, dove lavora Il meteorologo protagonista della penultima sezione; dal palazzo del Conte Tolstoj in cui (forse) morì Gogol’ (leggere la bella La morte di Nikolaj Gogol’ per capire l’avverbio) a Milwaukee, dove nel 1936 fu inaugurato il treno Green Diamond. Poesia erudita o intellettuale, quindi? No, perché su questo asse orizzontale e planetario Italiano innesta un viaggio verticale nella memoria e nella coscienza individuali: La grande nevicata è quella del 1985, quando l’autore aveva 9 anni, e da quell’evento che ha lo stesso potere di radianza di quelli storici ricordati poc’anzi si sprigiona una serie di testi che proiettano chi legge in una galassia di immagini, oggetti, eventi che hanno quasi la forza di un’intermittenza del cuore: «la giacca a vento rossa con le piume d’oca», gli Walkie-talkie («Un crepitio, un rumore bianco, un codice/ segreto»), la zuppa inglese preparata dalla madre, la repellente Barbabietola da ingoiare a forza («innervosito ammasso purpureo/ scintillante, vibrante»), il passamontagna. Come quella dell’amico Wagner, la poesia di Italiano imbastisce una galleria di immagini di straordinaria concretezza e sapidità, ereditando dall’immaginazione del bambino immerso nella Grande Neve la capacità di far parlare gli animali (vedi il corvo della poesia iniziale, che osserva chi scrive e lo saluta così: «Entra pure in casa/ con le borse ricolme della spesa/ io ti aspetto qui fuori») o di fondere cose lontane in metafore sorprendenti e mai inerti («spilli/ di freddo nelle mani», il sole pomeridiano che brandisce «l’ascia delle tre», la cicatrice bianca del padre caduto da un albero trasfigurata in «una nuvola, il terrapieno di una ferrovia/ che trafora / i boschi sopra Santa Lucia/ uno sparo, un’eco inestinguibile/ come una voglia, il fumo della canna/ di un fucile»). CON QUESTO LIEVITO dell’immaginazione, che a tratti fa venire in mente Govoni, Italiano impasta un altro ingrediente fondamentale e tutto suo: il rispetto della forma. Ogni poesia aderisce a un modello unico e mai scontato (strofe di tre, quattro, otto versi con vincoli sillabici e grafici: per esempio settenari o rientri, anche successivi), inseguendo generi poetici o musicali (l’haiku in Il fiume, o la Passacaglia in verde minore) senza accontentarsi mai né di un’unica forma, né dell’informale o della prosa. Non è di certo la ricetta più praticata dalla poesia di questi decenni, e anche questo rende Italiano una delle voci più riconoscibili e più sicure del panorama. Versione integrarle in PDF |
La grande nevicata raggiunge il secondo posto nelle Classifiche di qualità de L'indiscreto (maggio 2023)
Tre volte l’anno L’Indiscreto stila, grazie a un pool di “grandi lettori” composto da critici/e, librerie, riviste letterarie, editor, traduttori/trici, giornalisti/e culturali, scrittrici e scrittori, delle classifiche librarie alternative a quelle di vendita, sulla base di una valutazione qualitativa da parte degli addetti ai lavori |
Quattordicesimo episodio di In rime sparse: il podcast (26 aprile 2023)
«Quando tutto sarà a brandelli, riarso | rovinato - mi dice - io sarò lì a cercare | le ossa che ancora luccicano». Nel quattordicesimo episodio di "In rime sparse: il podcast" Giulia Martini e Francesca Santucci parlano dell'ultimo libro di Federico Italiano, "La grande nevicata" (Donzelli 2023). Ascoltatelo qui |
Davide Brullo, "Il genio di Italiano spunta ovunque", Il Giornale 19 marzo 2023
Nota di Valentina Furlotti a La grande nevicata su atelierpoesia.it
Presso l’osservatorio di Khodovarikha, sul Mar di Barents sud-orientale, un meteorologo vive in perfetta solitudine. Si tratta di Slava Korotki, che il The Guardian nel 2015 ha definito «the most cut-off man on Earth», l’uomo più isolato della Terra. L’avamposto artico di Khodovarikha dista infatti circa un’ora di elicottero dalla città più vicina. A lui si è ispirato Federico Italiano in una sezione della raccolta La grande nevicata, appena uscita per Donzelli Editore... atelierpoesia.it |
Alessandro Mantovani recensisce La grande nevicata per Il Foglio 14 marzo 2023
Lontano dalla frenesia della vita urbana, la stagione invernale è da sempre – almeno nelle sue valenze letterarie – un tempo della mente, sintomo di stasi, meditazione, quiete, memoria. In essa, poi, convivono due temporalità distinte; mentre il mondo congela, davanti a un fuoco o sotto coperte, l’uomo ricorda il passato e si proietta nell’orizzonte di attesa di un altrove di là da venire. Tutte queste sono le connotazioni che innervano la nuova raccolta di poesie di Federico Italiano, ricercatore di letteratura all’Accademia austriaca delle Scienze. La silloge si posiziona, dopo una lunga serie di pubblicazioni, come prova della maturità dell’autore largamente riuscita. La grande nevicata infatti prosegue, approfondisce e amplia tematiche già presenti in altri testi di Italiano, spostandosi, però, a un livello di preziosa eleganza formale. Tipica della ricerca dell’autore è infatti la deflagrazione delle coordinate spazio-temporali che conducono il lettore in una carambola di luoghi e tempi i quali collidono, si scontrano e si muovono su vettori festosamente impazziti. Bastano secchi titoli come Vilnius, Gerusalemme, Mediterraneo, Erevan ma anche bizzarrie quali Il diamante verde di Milwaukee, Equinozio d’autunno a Tangeri o La pesca coi cormorani sul fiume Li per condurci in questa geografia straordinaria che subordina la dimensione spaziale a quella della coscienza. E’ infatti il soggetto di volta in volta presente nei testi a filtrare, produrre e ridisegnare lo spazio in sua funzione, come quando dalle pagine di un libro “scivolò fuori la business / card di un ristorante a Dingle, / in Irlanda, specializzato in pesce”riportando chi parla proprio lì, non attraverso un semplice ricordo, ma in una sorta di reale compenetrazione di spazi: “ebbi la chiara sensazione... / che nulla può davvero finire”. E dunque, in virtù di questo regno della coscienza, di fianco a testi che osservano una natura esterna spesso colta nella sua dimensione invernale e statica (“Quassù l’inverno non è una stagione / ma un luogo, dove il calore è un’ipotesi / e sopravvivere un’occupazione”), altre poesie schiudono qualità più intime e memoriali, attorno all’infanzia autobiografica dell’autore. Ed è proprio in questo modo che la realtà si trasfigura ulteriormente. Alla luce della memoria infatti il mondo reale si rimodella seguendo spesso il campo magnetico di specifici oggetti. Così, di volta in volta, la zuppa inglese, i walkie-talkie, una barbabietola (“inner - vosito ammasso purpureo”), un passamontagna di lana, diventano i grimaldelli con cui il passato irrompe nel presente, mescolando i piani, le età e, come detto, i luoghi. E’ poi il merito di uno stile che dona massima attenzione alla regolarità del verso netto, preciso e aggraziato, ciò che riesce a ricondurre a una sistemazione gli elementi ribollenti di questa babele, restituendo una prova poetica di grande validità. (Alessandro Mantovani) |
NATURE'S TEXTURES
Brenda Porster on Federico Italiano's blending of the human and non-human. In: Poetry Birmingham Literary Journal (PBLJ), Issue 7 - Autumn/Winter 2021, pp. 80-83. Among the most original and surprising voices in Italian poetry in the last twenty years, Federico Italiano (Novara, 1976) is a poet constantly engaged with the environment that surrounds him, the toxic waste our species has disseminated over our planet and our collective memory, the traces we leave behind, signs of life and of resilience, of love but also of consumption, violence and death. This ecological tension, already present in Italiano’s preceding collections, L’invasione dei granchi giganti (Marietti, 2010) and L’impronta (Aragno, 2014), forcefully returns in his new book, Habitat (Elliot, 2020). And this is the humus that nourishes the poem ‘Body of Water’, born of a constantly deepening reflection on the ecological dimension of existence, on the concept of home (underlying the idea of eco-logy is that of inhabiting, of home, from the Greek òikos, ‘house’), on the extremely fragile co-existence of human with non-human, of organic with inorganic. The bodies of water we find in Federico’s poetry are first of all the rice fields of eastern Piedmont, which cross the Lomellina region and the towns of Vercelli and Novara, the poet’s childhood places. These rice fields, made famous by the 1949 neo-realist film Bitter Rice, represent an emblematic cultural landscape in northern Italy. It is a landscape still alive and recognizable today, though little known to the tourists who speed by without taking notice, more interested as they are in the spectacular beauties all around it—the Alps, the hills of Monferrato—and in the art towns. It is a landscape like few others, marked horizontally by human intervention in the form of a geometrical subdivision of the plots of land, a complicated catchment system that permits the immersion of the rice paddies, the rows of trees lining the embankments. Bodies of water are also the wild birds, the herons, the little egrets, the sacred ibises, as well as all the rare, timid little creatures that dwell in these divided waters, these water squares, negotiating their very existence. But a body of water is also the lyric ‘I’ itself, immersed in the fluidity of memory, an aquatic being like the others in the materiality of childhood memory. As the critic Riccardo Donati has written, with ‘Body of Water’ Federico designs a ‘cartography of the emotions’ that maps the strategies of survival and resistance of the living, even in their weakest and most easily ignored forms. But perhaps what makes this poetry so fascinating and necessary is not as much its post-Romantic, eco-poetic bent, its clearly ‘environmental’ nature: rather, its singularity is found in the capacity to create a texture of non-anthropocentric sound and image, where the human blends into the non-human, and the lyric ‘I’ does not dominate but merges with its habitat to become part of a vaster, irreducible ecosystem. (federico_italiano___brenda_porster.pdf) |
Gianni Montieri scrive di Habitat su minima&moralia, 1 marzo 2022
https://www.minimaetmoralia.it/wp/libri/i-cordoni-della-poesia-n-6-tendere-al-futuro/ Capita di riconoscersi e – molte volte – di arrivare alle soglie della commozione, leggendo le poesie raccolte in Habitat (Elliot, 2020) di Federico Italiano. Accade per il perfetto incedere del linguaggio, della carrellata di immagini che scorrono verso per verso, e da quelle altre sognate (o tempo addietro pensate) che andiamo ad aggiungere, assolvendo al nostro compito di lettori di poesia. Sono poesie fatte di provincia e di città europee, di slanci e di desideri, di oggetti che fanno da perno sul quale far ruotare un ricordo, un sentimento. Poesie di auto, animali, boschi, cimiteri. Sono poesie d’amore, di nostalgia. Italiano vede il passato all’indietro, e questa non è altro che l’azione che conosce per immaginare il futuro. Il Piemonte, la Lombardia, la A4, la Germania, una vecchia Audi insieme al ritmo, alla metrica, a un immaginario che cattura, come succede davanti a un film particolarmente riuscito. Una poesia che amo particolarmente fa così: «Sotto questa pioggia di fine inverno si andava a visitare le zie, a Galliate, con l’Audi 80 color senape – per anni, il nostro unico animale domestico. Dal sedile posteriore guardavo i condomini razionali e i tetti di villini nascosti, sotto cui m’immaginavo l’austera pace di un cacciatore appena rientrato dalla Namibia o le teche segrete in cui un vecchio dottore conservava insetti e altri mirabilia». Si tratta di un testo che viaggia su un doppio, anzi un triplo registro. Nel primo, Italiano, fa scorrere una serie di frame dal passato, dal quale lascia che passi l’immaginario di un ragazzino, il suo modo di osservare e di registrare. Nel secondo, c’è lo scatto in avanti, lo stesso ragazzino sostituisce con la fantasia la visione reale e negli ultimi cinque versi entrano molti mondi fantastici e lontani, ma non vi entrano per caso, è proprio quel viaggio usuale verso le zie, quella quotidianità, quel paesaggio – che vediamo con chiarezza – di condomini e villini nascosti che fa la crepa dalla quale entrano le visioni del poeta e l’indispensabile ricerca fantastica del ragazzo. Nel terzo registro c’è il tempo in cui Federico Italiano si è seduto, ha scritto il testo e ha immaginato di nuovo. Habitat è uno dei libri più interessanti che mi sia capitato di leggere negli ultimi due anni, è qui per questo. |
Nanni Cagnone e Federico Italiano: due generazioni (Recensione su Habitat) di Italo Rosato, in doppiozero 28 luglio 2020
Se nella poesia italiana ci sono davvero due linee, una plurilingue e aperta agli oggetti, e una “petrarchesca”, fatta di una accurata selezione di “sostantivi generali” (Contini) e rarefatti, in cui un usignolo sarebbe ammesso al “Jockey club lessicale” (sempre Contini) ma non una rondine (a meno di non chiamarla “Progne”), di certo Federico Italiano non appartiene a quest’ultima [...] A Federico Italiano invece, gli oggetti, accuratamente nominati, interessano tutti, e così anche geografie cartografie e mappe. Queste ultime, oggetto di alcuni suoi affascinanti studi di letteratura comparata, sono anche un frequente innesco della sua sorprendente poesia [...] Leggi qui la versione integrale. È in terzine la realtà selvaggia.
Maurizio Cucchi recensisce Habitat per Robinson (Supplemento di Repubblica, 21 marzo 2020, p. 17). Sorprendente e per tanti aspetti notevole è Habitat (Elliot) di Federico Italiano, nato nel 76 nel novarese e residente a Vienna, dopo anni vissuti in Germania, a Monaco. Usa con libera abilità la terzina e altre brevi soluzioni strofiche e colpisce per la forte asprezza ruvida, ispida dei suoi versi, dove tratteggia ambienti della memoria o introduce figure di animali in un vero, apertissimo bestiario (come fa il tedesco Jan Wagner, da lui tradotto) di cui è l’uomo stesso a far parte. Inventa originali narrazioni di una realtà selvatica o selvaggia, violenta (forse con qualche insistenza) nella provvisorietà o nell'illusione dell’umano esserci. E riesce ad allestire un insieme, un vero organismo libro – dall’identità spiccata per scrittura, immaginazione e sottostante, circolante pensiero – di netta personalità espresstva. Una figura, Italiano, tra le più solide delle nuove generazioni. (Leggi qui il PDF) È Italiano (Federico) il classico del nuovo millenio. Davide Brullo recensice Habitat sul Giornale, il 9 febbraio 2020 Ha la caustica eleganza di Kubrick, Federico Italiano. Imita il gergo di Abulafia, il cabbalista ("ma dietro i cristalli / il segreto divenne legge e alleanza"), imita Rilke, delinea l'etica delle garzette ("Mattino chiaro, azzurro, atletico, / nelle distese smeraldo / del loro regno acquatico"). Non ha limiti la sua cosmologia lirica: ha la spavalderia di Brodskij, il famelico talento di Ted Hughes. Italiano insegna a Vienna, traduce, ha 44 anni, scrive come un classico del nuovo millennio. Grazie a un geniale esule la poesia italiana è salva. (Leggi qui il online PDF) Alida Airaghi recensisce Habitat su sololibri.it 23-01-2020.
Federico Italiano è, a mio parere, tra i poeti nati negli anni ’70, il più solidamente ancorato a una nostra tradizione di poesia narrativa e il più originalmente innovativo nel recepire e fare suoi stimoli culturali provenienti da ambiti non solo letterari, ma anche filosofici e scientifici. Già leggendo una precedente raccolta, L’invasione dei granchi giganti, avevo ricavato quest’impressione di composta padronanza dei mezzi espressivi nel loro muoversi tra ambienti interni ed esterni, passato e presente, scrittura descrittiva e meditativa. Ora, in questo nuovo volume di versi pubblicato da Elliot (2020), Habitat, Italiano affina il suo sguardo introspettivo in una dimensione delicatamente malinconica, nella rievocazione di figure e paesaggi amati, e contemporaneamente analizza con severa analiticità il proprio vissuto includendolo in un orizzonte storico, geografico e sociale più ampio e complesso. Habitat, appunto, ciò in cui siamo inseriti e che ci circonda: e che per lui, piemontese della pianura padana, ricercatore a Vienna, critico letterario e traduttore dal tedesco, scisso tra due lingue e due culture, diventa stimolo e vincolo insieme, provocazione e freno [...] (Leggi qui la versione integrale) |
Riccardo Donati recensisce Habitat in SEMICERCHIO. Vol. LXII. Pag. 88-89
Tra le voci più originali e sorprendenti della poesia italiana degli ultimi vent'anni (una scelta rappresentativa del suo lavoro si può leggere nell'auto-antologia Un esilio perfetto, pubblicata da Feltrinelli nel 2015), Federico Italiano tocca con Habitat la piena maturità del suo percorso autoriale, del resto segnato da una costante tenuta tonale e formale. Il soggetto poetante (ma attenzione: Italiano è tra quanti lavorano per una de-soggettivizzazione dell'io) torna a vestire i panni dell'esploratore, in parte avventuriero in parte scienziato, impegnato a scandagliare una cartografia emotiva in cui i luoghi dell'infanzia (l'Ovest Ticino) e gli ambienti usuali, domestici, si intrecciano con distese artiche e plaghe desertiche, la quotidianità familiare con accese fantasie di ere remote e dimensioni altre. La scrittura in versi si offre come uno strumento sensibilissimo per mappare un gran numero di habitat esistiti, esistenti o soltanto fantasticati e studiare le entità – si tratti di donne, uomini, maestosi rapaci o umili arbusti, a comprendere persino la materia inerte – che li abitano. Nel continuo, fisiologico rimescolarsi dei fenomeni, ogni forma di vita costruisce il proprio spazio di presenza nel segmento di mondo che le è dato, ciascuna è condizionata dall'ambiente e cerca di reagire a tale condizionamento elaborando strategie per orientarsi, restare, prevalere. Il metodo nigeriano per vincere a Scrabble è da questo punto di vista un componimento esemplare del lucido ma non distaccato impulso analitico che muove la penna di Italiano, nonché un acuto testo di riflessione metalinguistica (con accenti wittgensteiniani). [...] Con Habitat la voce di Italiano si conferma tra le poche in grado di restituire alla nostra letteratura una dimensione che, in tempi di realismi forzati, di nuovi ‘naturalismi fiscali’ per parafrasare Lukács, rischia di andare perduta: quella del meraviglioso raziocinante. Il processo concettuale e associativo alla base del suo disegno autoriale aspira infatti, per via di nitore e accorta misura del dettato, a un recupero della stupefazione, a una possibilità di re-incantamento della parola poetica dettato da una vibrante adesione alla labile, inopinata caparbietà di cui è capace ciò che esiste. (Leggi qui la versione integrale) Una mappa impossibile – Su “Habitat” di Federico Italiano
Recensione-saggio di Alessandro Mantovani apparso su La balena bianca il 7 aprile 2020. Per definizione un habitat è l’insieme «delle condizioni ambientali in cui vive una determinata specie di animali o di piante, o anche un singolo stadio del ciclo biologico di una specie»; ogni ente – anzi, ogni stadio evolutivo di esso – ha dunque un suo habitat le cui condizioni permettono prosperità, a patto di essere conosciute nella loro indeterminatezza e ciò vale soprattutto per l’essere umano per il quale l’habitat è più un territorio da costruire che qualcosa di dato a priori. Proprio di questa condizione si fa forza Federico Italiano che nella nuova raccolta Habitat (Elliot, 2020) dirige la sua poesia al fine di decrittare e illustrare questo concetto. Il libro, diviso in cinque sezioni, è infatti assolutamente compatto in tale indagine che si declina nella ripetuta rappresentazione del rapporto che l’uomo conduce con ciò che di volta in volta compone l’ambiente in cui si trova, ponendo di conseguenza un’attenzione costante nei confronti delle entità non umane di cui la raccolta trabocca. Dai giardini, alle lampade, al carrello della spesa, a un passeggino, passando per piante e animali, Habitat è una raccolta in cui il dominio assoluto degli oggetti mina la supremazia antropocentrica del soggetto e la sottomette al regno del non umano. Nella quasi totalità dei testi sono infatti gli oggetti – come in un contesto di relatività fisica – a deformare lo spazio-tempo e ad emanare da se stessi le coordinate adatte alla creazione di un contesto, un habitat per l’appunto. In perfetta continuità con la poesia “cartografica” dei libri precedenti, il ruolo degli oggetti è segmentare, tracciare solchi tra le dimensioni, traghettare, creando una geografia impazzita subita il soggetto che vede di volta in volta spalancarsi varchi nel tempo e nello spazio, in una sequenza di coordinate geostoriche disarticolate, tangenti, fuggitive e rimescolate [...] Continua a leggere qui |
Federico Italiano è il Fitzcarraldo della poesia italiana
Davide Brullo recensisce Habitat su Pangea, 18 febbraio 2020
Federico Italiano è il Fitzcarraldo della poesia nostra: fonde la cultura all'ispirazione selvaggia (e chiacchiera con Auden, Brodskij, Walcott). [...] Quando Federico Italiano fonde la cultura indomita con l’indole selvaggia, è un poeta eccezionale: elegantissimo europeo in una Amazzonia, una specie di Fitzcarraldo. Shakespeare sul Rio delle Amazzoni [...] Italiano è cresciuto tra le risaie novaresi, ha vissuto quindici anni a Monaco di Baviera, è ricercatore a Vienna. Ha tradotto tanto, facendo della traduzione un’armeria bizantina: dallo spagnolo, dall’inglese, dal francese. Il tedesco è l’altro lato della sua vita linguistica: Einaudi ha da poco pubblicato Variazioni sul barile dell’acqua piovana di Jan Wagner, la traduzione è sua, di Italiano. La sua poesia è riassunta nel titolo del primo libro, Nella costanza (Edizioni Atelier, 2003): una infallibile fedeltà permette di azzerare le distanze tra Potatori di siepi a Hasenbergl (poesia di allora) e Il metodo nigeriano per vincere a Scrabble, poesia inscatolata nell’ultima raccolta di Italiano, Habitat (Elliot, 2020), tra Trasloco (poesia di allora) e Le case degli altri (poesia di ora). Come se continuasse a raffinare il vetro in vento, Federico.
Federico Italiano è un poeta ‘europeo’, cioè colto: chiacchiera con W.H. Auden, s’è azzardato a scrivere un Post scriptum a Josif Brodskij, prende il caffè con Ted Hughes, strologa di miti ancestrali con Seamus Heaney. In una poesia bellissima, Garzette, mi pare che stia ballando con Derek Walcott, in un Eden dove ogni linguaggio è argento [...]
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Davide Brullo recensisce Habitat su Pangea, 18 febbraio 2020
Federico Italiano è il Fitzcarraldo della poesia nostra: fonde la cultura all'ispirazione selvaggia (e chiacchiera con Auden, Brodskij, Walcott). [...] Quando Federico Italiano fonde la cultura indomita con l’indole selvaggia, è un poeta eccezionale: elegantissimo europeo in una Amazzonia, una specie di Fitzcarraldo. Shakespeare sul Rio delle Amazzoni [...] Italiano è cresciuto tra le risaie novaresi, ha vissuto quindici anni a Monaco di Baviera, è ricercatore a Vienna. Ha tradotto tanto, facendo della traduzione un’armeria bizantina: dallo spagnolo, dall’inglese, dal francese. Il tedesco è l’altro lato della sua vita linguistica: Einaudi ha da poco pubblicato Variazioni sul barile dell’acqua piovana di Jan Wagner, la traduzione è sua, di Italiano. La sua poesia è riassunta nel titolo del primo libro, Nella costanza (Edizioni Atelier, 2003): una infallibile fedeltà permette di azzerare le distanze tra Potatori di siepi a Hasenbergl (poesia di allora) e Il metodo nigeriano per vincere a Scrabble, poesia inscatolata nell’ultima raccolta di Italiano, Habitat (Elliot, 2020), tra Trasloco (poesia di allora) e Le case degli altri (poesia di ora). Come se continuasse a raffinare il vetro in vento, Federico.
Federico Italiano è un poeta ‘europeo’, cioè colto: chiacchiera con W.H. Auden, s’è azzardato a scrivere un Post scriptum a Josif Brodskij, prende il caffè con Ted Hughes, strologa di miti ancestrali con Seamus Heaney. In una poesia bellissima, Garzette, mi pare che stia ballando con Derek Walcott, in un Eden dove ogni linguaggio è argento [...]
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Playlist. Il meglio del 2017 – supplemento della rivista settimanale Internazionale uscito il 6 dicembre 2017. Christian Raimo ha incluso il mio libro Un esilio perfetto. Poesie scelte 2000-2015 (Feltrinelli Zoom) tra i quattro migliori libri di poesia del 2017 [onorato della scelta, sebbene il mio libro sia del 2015]. Scrive Raimo: "Italiano sembra riconoscere come il nostro tempo sia immobile, chiuso nell'incanto di uno sguardo. La poesia sa come specchiarlo"
Federico Italiano – Aiace è morto. In: Paolo Febbraro, Poesia d’oggi. Un’antologia italiana. Premessa di Armando Massarenti. Roma: Elliot Edizioni, 2016. [Commento alla mia poesia "Aiace è morto", pubblicato nella rubrica Poesia d'oggi a cura di P. Febbraro su Il Sole 24 Ore-Domenica, 29 settembre 2013] Il titolo scelto da Federico Italiano per il suo terzo libro di versi, L’impronta – una somiglianza per contatto originata dalla pressione di un oggetto su una superficie modellabile, dove il processo può essere inteso in senso sia letterale che metaforico, e il risultato libera una dialettica paradossale e anacronistica di presenza e assenza che elude i parametri della rappresentazione e della mimesi, come ha spiegato Georges Didi-Huberman in un’opera importante – è indice di alcune pratiche compositive e di poetica manifestatesi nella poesia di Italiano ben prima di questa tappa. Per comprendere meglio i tratti singolari dell’esito più recente è dunque opportuno un confronto con qualcosa di analogo, ma come si vedrà non identico, scritto in passato; e l’accostamento dell’inizio dell’ultima raccolta con la fine della precedente sembra particolarmente indicato allo scopo, per mettere in luce un’articolazione che è sia continuità che distacco [...] Federico Francucci, Recesione a L'impronta, in: Semicerchio. Rivista di poesia comparata. LII 01/2015, pp. 154-155. Leggi qui la versione integrale. In poesia, la strategia conta più dell’istinto. Federico Italiano è un poeta nato con la camicia, il Messia della new wave della lirica italica. Ha esordito nel 2003 (Nella costanza, per le Edizioni Atelier), ha piazzato un “libro d’arte” nel 2006 (I Mirmidoni, per Il Faggio), introdotto da Giancarlo Majorino, è esploso nel 2010 con L’invasione dei granchi giganti [...] Ora è in libreria con L’impronta, elegante collana sperimentale (“i domani”) curata dal più autorevole critico letterario del nostro tempo, Andrea Cortellessa [...] Davide Brullo, Federico Italiano, il poeta che guida la nostra new wave, in: Il Giornale, 23 novembre 2014. [Recensione a L'impronta]. Leggi qui la versione integrale. Che felice sorpresa, la lettura di questo sottile e resistente (nel senso di compatto, forte e sicuro della sua voce) libro di versi del giovane poeta e critico Federico Italiano: così fieramente lontano da stili e contenuti imperanti nella flebile, introspettiva e generica produzione letteraria dei suoi coetanei. Italiano ha qualcosa da dire, finalmente, ed è completamente padrone dei mezzi a sua disposizione per dirlo. Forse perché vive e lavora, occupandosi di arte-filosofia-scienza, tra Monaco e Vienna, estraneo quindi al provincialismo culturale della nostra penisola; o forse perché quotidianamente si misura con un'altra lingua, razionale e dura come il tedesco. Le elogiative parole che gli dedica Davide Rondoni nella quarta di copertina suonano quasi inadeguate, minimaliste: “una possibile epica... la possibile letizia... misteriosa grazia e libertà...”. Qui in realtà siamo davanti a qualcosa di diverso e di nuovo, a un poeta che riesce a scrivere di una quotidianità fatta di gesti concreti, di osservazioni puntuali sulla realtà, rifiutando qualsiasi edulcorante retorica. I ritratti dei personaggi, ad esempio, che ce li restituiscono nella loro disarmata e compiuta interezza (l'ostetrica del paese, il giocatore di scacchi siriano...). O i ricordi, mai autocelebrativi, mai nostalgicamente commossi: (il terrificante crocefisso della stanza dei giochi, il dopobarba del papà tornato dal suo lavoro in Africa, l'alba traslunata di Miami...). Italiano parte dalla vividezza di un particolare, per poi risalire con intelligenza descrittiva alla costruzione di un episodio in cui la poesia si cala proprio per la sua peculiare e straniante unicità. I versi raccontano squarci di vita vissuta, con la tranquilla limpidezza di una narrazione che sa farsi immagine quasi filmica, come nella descrizione di una notte nordica in cui gli addetti alla nettezza urbana spargono le strade innevate di sale e terriccio: “Rincasavo con lo sguardo sbilenco / ondulante tra i miei passi e le luci / delle poche finestre accese, quando // un camion evacuò ghiaia rombante / alle mie spalle...” Uno stile molto personale, che aderisce al concetto, non si lascia sedurre dalle sirene di musicalità obsolete, o dai tentacoli di una tradizione asfissiante. E sa misurarsi con la storia, quella addirittura universale, tellurica, che osserva con l'intatto stupore e con la curiosità scientifica dello studioso: e con le storie private della sua esistenza, gli incontri, i viaggi, gli amori. Vicende sentimentali raccontate con asciuttezza ed ironia (“Relazione lessicale, la nostra, mio melograno, / mio polipo, culinaria, hai sempre amato / una certa alchimia da fornello. / Una comunicazione ipotattica, disciplinatamente / ternaria, indeuropea.”), e autoritratti che nulla concedono al compiacimento egotistico: “Poiché non da pianura, / ma dal fronte dei monti fui edotto, / educato alla venerazione del mammut”. Una volta tanto, quindi, nella nostra poesia, un autore non mette in primo le venerate pieghe e piaghe della sua anima, ma la scienza (ad esempio), scandagliata nei suoi esperimenti e laboratori, con studiata applicazione nei riguardi del mondo animale (granchi, ostriche, làdani, mustelidi, lombrichi...). La geologia, testimonianza evidente e innegabile della nostra insignificanza di fronte al rincorrersi delle ere (“... il progetto orografico del Buon Dio... il cuore lo fissai al testo dei miei fossili”). E soprattutto la storia del mondo, che tutto trasforma, macina, inghiotte, confonde. Come nel poemetto “I Mirmidoni”, in cui un gruppetto internazionale di giovani in un caffè di Monaco amoreggia, spettegola, sbevazza: involontari eredi e professionali comparse dei guerrieri greci, spettrali nei loro scudi, gambiere, archi e spade. O nella prima sezione del volume, forse la più interessante, in cui si ipotizza (o si vagheggia?) un' inarrestabile invasione di rospi, locuste o granchi giganti che da chissà quali sconosciuti antipodi dilaghi nel mondo occidentale, mettendo fine al suo degrado morale, civile e ambientale: “Popolo che muovi sotto le acque, prelibata / carne della distruzione, migrazione / disgiuntiva della ricchezza, / bilancia del consorzio umano, inconsapevole / armata della storia, / moltìplicati, / perché la piaga sia piena e la punizione completa.” Profezia visionaria di una lucidissima coscienza poetica. Alida Airaghi, in: Atelier, n. 65, marzo 2012, pp. 113-14. A. Airaghi ha pubblicato una versione ridotta della sua recensione anche qui |
Federico Italiano - L'infinito dietro la cornice, in: Riccardo Donati, La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d'oggi e arti della visione. Con una nota di Daniela Brogi. Lentini: Duetredue Edizioni, 2017, pp. 119-130.
Non è inusuale, nell'articolato scenario dell'attuale poesia italiana, trovare autori che traggano ispirazione dai loro ricordi e dalle loro impressioni infantili; meno consueto è però il richiamo all'immaginario avventuroso alimentato dai classici per l'infanzia sette, otto e novecenteschi. Gli eroi di carta come Lemuel Gulliver, Sandokan, Michele Strogoff sono infatti solitamente appannaggio delle generazioni precedenti, che gelosamente ne custodiscono una memoria appassionata, laddove la fantasticazione dei nati negli anni Settanta e Ottanta si radica principalmente nell’etere televisivo. Un’interessante eccezione è rappresentata da Federico Italiano, voce tra le più notevoli della poesia contemporanea, e in particolare dalla poesia sopra riprodotta [Dersu Uzala]. In questo testo, tratto dalla raccolta L'invasione dei granchi giganti, dove domina un’ambientazione nordica, glaciale, anzi artico-siberiana, Italiano traccia quella che potremmo definire una vera e propria cartografia emotiva, frutto di una sapiente miscela verbo-visiva dove scenari reali e luoghi dell’immaginario si fondono per dar vita a un personalissimo paesaggio interiore.
[...] Riccardo Donati, "Interferenza04# – L'infinito dietro la cornice" , in: Arabeschi Rivista internazionale di studi su letteratura e visualità. n. 7, gennaio-giugno 2016, pp. 111-116. Leggi qui la versione integrale apparsa sul cartaceo. [Saggio dedicato alla mia poesia "Dersu Uzala", tratta da L'invasione dei granchi giganti ora compresa in Un esilio perfetto. Poesie scelte 2000-2015]
Giuliano Ladolfi, "Federico Italiano: La consistenza del reale nella parola", in: Poesia del Novecento. Dalla fuga alla ricerca della parola. Vol. 5. L'età globalizzata. A cura di G. Ladolfi. Borgomanero: Giuliano Ladolfi Editore, 2015, pp. 277-283. [Saggio articolato, con vario materiale bio-bibliografico da Nella costanza a L'impronta] "Die Stimme der Wächter. Der italienische Dichter Federico Italiano dichtet im Café der Glyptothek...". [Articolo sul poemetto "I custodi della Glittoteca" da Nella costanza, in tedesco] Nicolas Freund, Süddeutsche Zeitung, 2. Sept. 2013. |
Giuliano Ladolfi, "Federico Italiano - La consistenza del reale" [tre poesie]. In: Poeti italiani del Duemila. A cura di Giuliano Ladolfi, Bari: Palomar 2011, pp. 219-227 [cappello introduttivo e articolato commento per ogni testo antologizzato] La passione scientifica dell’autore per i luoghi e per le mappe, teorizzata nei suoi saggi di ‘geopoetica’, confluisce coerentemente anche all’interno dell’ultimo lavoro in versi di Federico Italiano. Fedele a un’idea sostanziale che l’autore ha della poesia, la sua lingua tenta qui un viaggio ai limiti del fantastico, attraverso un tempo e uno spazio i cui confini corrispondono sempre meno a quelli geografici e per mezzo di un aggiornamento e allargamento del lessico base della lirica, al fine di esaudire la scrittura di una visione del mondo quanto mai “post-moderna”. Uno stile che non resterà immune da certe finezze metaforiche («il mio materasso è un pendio / giallo, costiero» e «dal mio stomaco quadrangolare / fuori dalla mia edicola insonne») che lungo il procedere del libro traslano il viaggio stesso dalle straniate topografie della prima parte Invasioni («in cui una pagina era una mappa, geografia / rilievo») alla volta di un’indagine più interna, non immune dalla necessità di una perlustrazione riutilizzabile solo in chiave più personale, privata, simbolica: forse anche Italiano scrive a sua volta un Voyage autour de ma chambre, soprattutto nell’ultima parte nominata, con forte introflessione del movimento, La nuova lingua: «Hanno circumnavigato per anni / le credenze di casa […] finché finirono in camera mia / sentinelle sul comodino, armata / dalla specchiera duplicata / alfieri dei miei scacchi minimali». Con lo sguardo gettato sopra Il Nuovo Mondo, per riprendere ancora il titolo di una delle poesie della sezione finale, l’autore si crea l’occasione per afferrare la coincidenza di lingua e terra, definizione di una realtà sfuggente oggigiorno sempre più in movimento, superando anche il centrale poemetto de I Mirmidoni, già pubblicato e qui reinserito in funzione di cerniera fra i due estremi, luogo di un vertiginoso pastiche storico di presente e passato; e infatti uno degli ultimi testi recita: «dico la voglia / nella scelta della virgola, / nel fissare l’unico aggettivo concessomi, / poiché non c’è spazio / quando ci separa un mondo e non c’è tempo». Ma è anche forse un’altra sottile vena che attraversa questo secondo libro di poesie di Federico Italiano. Il mondo che il poeta descrive pare colto sull’orlo di un soffocamento per eccesso e per accumulo; una realtà umana opulenta sembra schiacciare l’intero globo: «Tutto pesa nei miei taccuini / ma nulla quanto l’addizione». Il viaggiatore si muove dunque su una «terra / anfibia, non tua – nemmeno d’altri – / col gesto incerto di straniero, gli occhi / violenti del turista». Che non ci sia nella catastrofe prospettata dall’Invasione dei granchi giganti anche un sussurrato ma pungente richiamo ecologista o, quanto meno, d’accortezza a un rapporto più coscienzioso tra uomo e spazio abitabile e abitato? Guido Mattia Gallerani, in: Punto - Almanacco della Poesia Italiana, 1/2011, pp. 38-39. |
Il libro di Federico Italiano ad una prima lettura affascina e disorienta in egual modo. La forte carica visionaria, che si nutre di immagini febbrili e di un lessico venato di stranianti tecnicismi, si unisce ad una sintassi franta, ricca di apposizioni e fantasiose perifrasi. Componimenti come Mr Bellow al salone del mobile e I Mirmidioni, con il loro continuo mescolare proiezioni psichiche e immagini dal mondo reale, fantasie oniriche e allusioni colte, sono ad un primo impatto tanto affascinanti quanto ostici. Il disorientamento, però, è presto mitigato, nelle riletture che il poeta merita, dalla presenza di una fitta rete di temi e di immagini. Allo stesso modo il ritmo franto, scabroso e a tratti scorbutico rivela, quando ci si immerge nei componimenti, lampi di grazia e di umorismo, un umorismo spesso celebrale e non di rado nero.
Italiano, d’altronde, dissemina tra le pagine implicite dichiarazioni di poetica e raffinati brani metapoetici che testimoniano una tensione verso la costruzione di un libro coerente. Nel componimento Schiller, ad esempio, nel corso di un colloquio immaginario con il grande poeta tedesco, Italiano evoca così le sue poesie: “Gli raccontai di granchi giganti e locuste / e parve sensibile alle mie febbre / indeuropee” (p. 23). Più avanti in La nuova lingua il poeta paragona i suoi esperimenti linguistici ad una sorta di vizio: “Con te presi a fumare, con te, nuova e medesima lingua / le ho fumate tutte, fino al bruciore / notturno sotto la laringe, fino / al raschio verticale.” (p. 69). Nel penultimo componimento della raccolta, metapoetico sin dal titolo, Post scriptum a Josif Brodskij, Italiano mette in relazione i paesaggi dell’infanzia, evocati per mezzo di astrazioni geometriche (“Sono nato e cresciuto tra le risaie piemontesi / dove onde minuscole screziano / la perfezione dei rettangoli e dei trapezi”, p. 81) con la sua propensione ad una poesia venata di simboli «arcaici»: “Poiché non da pianura, / ma dal fronte dei monti fui edotto, / educato alla venerazione del mammut” (p. 81). Il libro è caratterizzato da una ricerca di un simbolismo allo stesso tempo privato ed universale. Emblematici, a riguardo, i primi tre componimenti nei quali il poeta evoca le piaghe d’Egitto sin dalla scelta degli animali: le rane di Es. 7, 26-28 ne Il tradimento dei rospi e le cavallette di Es. 10, 1-20 ne La nuova età gregaria o l’invasione delle locuste. Al simbolismo biblico Italiano unisce la riscrittura di alcune notizie di cronaca relative al disastroso intervento dell’uomo nell’ecosistema come nel caso della proliferazione di rospi Cane toad che funesta realmente l’Australia, dove l’animale fu introdotto dagli agricoltori nel 1935. Il poeta sceglie di parteggiare per gli animali, sognando una distruzione purificatrice: “perché la piaga sia piena e la punizione completa” (p. 15). Il sogno palingenetico, però, è destinato a rimanere frustrato: “I rospi mi hanno tradito, mi promisero distruzione / completa del nord-est australiano, / ma non fecero che irretire un paio / di contadini” (p. 9), oppure a vivere soltanto nei fogli di calcolo di un ipotetico scienziato: “Prendo le misure degl’invasori [i granchi], incrociando in Excel / tutti i mari del globo”, p. 15). Nella terza parte del libro gli animali assumono un valore diverso ma complementare: da emblemi di una sospirata apocalisse a simboli di un mondo altro e straniante (il tasso di Il voyeur mustelide) e metafora della malattia (i polipi di Angina). Proprio nel caso del simbolismo legato agli animali si può misurare la straordinaria perizia di Italiano nel tessere le sue trame simboliche. Con Angina, infatti, si chiude il circolo aperto con i primi tre componimenti: l’immagine evocativa degli animali che invadono le piane australiane, i campi, i mari si salda alla conturbante invasione dei polipi che si nascondono “sotto il letto”, nella cesta della biancheria, nel lavandino. Dai grandi spazi marini divorati dai granchi giganti, una sorta di immagine bellica che allude alla Seconda guerra mondiale, si passa agli spazi della casa/corpo invasa dai polipi. Pur essendo organizzato in tre sezioni, il libro a mio avviso è di fatto bipartito. Dopo lo spartiacque rappresentato dal lungo e a tratti macchinoso poemetto I Mirmidioni, infatti, il libro esce progressivamente dalla dialettica sogno/archetipo (le piaghe d’Egitto, i popoli primitivi indoeuropei) per lasciare uno spazio sempre maggiore ad una originale forma di poesia lirica. A partire dalla bellissima Il Dolmetscher dei congiunti si intrecciano tra loro tre nuovi temi: il tema della malattia e della morte, il tema dell’infanzia, il tema della consunzione del linguaggio. La misura più breve e la materia più scottante regalano ai versi un’emozionante vigore. In questi componimenti il poeta allontana sia la tentazione, sempre ricorrente, del poemetto alla Eliot sia una versificazione troppo celebrale e di maniera. Così facendo Italiano raggiunge una maggiore forza espressiva. Bellissimo, ad esempio, il dittico dedicato alla nonna Diagonale del sacro e Requiem per un’ostetrica, e la poesia dedicata al padre, L’odore nuovo. I tre temi di cui abbiamo detto in queste poesie si fondono perfettamente. Per fare un solo esempio, in Requiem per un’ostetrica si evoca la malattia della nonna attraverso le incongruenze linguistiche della donna che applica il linguaggio tecnico della ginecologia alla vita quotidiana (I tuoi oracoli erano ginecologici: / nel dire utero ti calmavi / […] E quando il nonno dalle dita di rovere / si tagliava in cucina: lacerazione del labbro superiore, / nulla di grave, un corpo elastico regge ben altro”, p. 66). La malata, intrappolata nel suo letto, finisce con essere identificata dallo sguardo partecipe del poeta con il suo stesso linguaggio: “la lingua fu tutto il tuo essere negli anni / del congedo” (p. 67). Allo stesso tempo è una sorta di metafora/gioco di parole ad introdurre il tema della malattia all'inizio del componimento: “La malattia ti aveva conservata sotto spirito / - una ciliegia al maraschino” (p. 65). L’immagine incongrua ma fantasiosa evoca lo sguardo e la logica dei bambini, quella logica e quello sguardo che avevano aperto anche L’odore nuovo: “Deglutivo ogni giorno un misurino / di cielo nelle braccia della zia. / La mia prima equazione / fu papà = jumbo jet” (p. 61). Il libro dunque si evolve senza strappi apparenti. Italiano scava a poco a poco nel cumulo delle immagini e dei simboli cari al suo immaginario, affastellati forse con troppo ricchezza nella prima parte. Il lettore, parallelamente, impara a muoversi nelle mappe mentali del poeta. Il libro approda alla progressiva messa fuoco di una voce compiutamente originale. Lorenzo Geri, in Poesia 2010-2011. Quindicesimo annuario, a cura di Paolo Febbraro e Matteo Merchesini, Roma: Perrone, 2011, pp. 225-228. Nello stesso annuario, la raccolta L'invasione dei granchi giganti è nominata tra i sette libri migliori del biennio 2010-2011, ivi p. 162. |